Come non hai mai guardato prima – Parte III


  Parte III
 

“Dublino è un labirinto”.
A Daniele venne in mente le celebre frase di James Joyce mentre Doran girovagava in macchina verso l’alloggio che suo padre aveva affittato per il suo soggiorno.
Le strade erano tanto asfaltate quanto lastricate di mattonelle di varia misura e forma.
Ora che si trovavano ancora in periferia, l’aspetto delle vie era alquanto squallido: le case avevano muri scrostati e c’erano mucchi di spazzatura nascosti dietro i cassonetti agli angoli delle strade.
Daniele storse la bocca per esprimere la sua indignazione, ma non disse nulla.
Dopo pochi minuti, però, il paesaggio cambiò radicalmente.
Sui lati delle strade, le abitazioni stavano ordinate, in fila. Erano di vari colori e passavano dal rosso mattone al giallo ocra fino ad un bianco un po’ sporco. Erano molto belle: la maggior parte avevano dei rampicanti, come edera e altre piante, che ricoprivano le parti più basse dei muri; erano costruite in mattone rosso e avevano tutte delle porte a riquadri dipinte di colori molto vivaci.
Mano a mano che si erano allontanati dall’aeroporto, la densità di popolazione era cresciuta e in pochi minuti erano entrati nel cuore della città.
Non era raro venire accostati da carrozze turistiche trainate da una coppia di cavalli, o sentire, di tanto in tanto, levarsi nell’aria il suono di tin whistle, che zufolava qualche melodia tradizionale irlandese.
Spesso questi suoni provenivano da dei piccoli gruppi di uomini e donne che suonavano, seduti sui marciapiedi o su delle sedie, fuori da locali o dalle loro case.
Il panorama era cambiato in fretta: alla tonalità grigia della periferia era subentrata una tonalità più moderna, che tuttavia non soffocava i piccoli parchi e gli alberi che si aprivano dietro ogni angolo ed ogni incrocio.
Daniele tuttavia non vide molte di queste cose: né le case con i bei giardini di Shanowen Park e Shanowen Road , né la tranquillità di Glasnevin Avenue, o i prati di Ballyboggan Road, accanto alla quale si adagia il Tolka Valley Park.
Il suo sguardo era tutto rivolto alla cartina di Dublino che si era portato da casa.
Era certo che si sarebbe perso almeno un paio di volte, dunque preferiva avere perlomeno una carta della città a portata di mano.
Notò che Dublino era posta alla foce di un fiume, il Liffey. Il porto principale era esattamente al centro della Baia di Dublino, anche se una buona parte di esso stava a qualche chilometro più a Nord-Est.
Le case e le strade non erano disposte con un ordine apparente, o almeno non quello a cui Daniele era abituato.
Se avesse dovuto paragonarla a una forma geometrica, avrebbe detto che Dublino era una sfera, o una circonferenza: le vie sembravano disposte a raggiera, a formare cerchi che delimitavano i quartieri, soprattutto appena al di fuori del centro della città.
L’arteria stradale più imponente era piuttosto distante dal centro, e creava una specie di circonferenza che andava dall’aeroporto fino alla fine della baia e che dava la sensazione di essere un grande muro difensivo che cullava teneramente l’intera città, sebbene ne tagliasse fuori un pezzo, per l’esattezza la parte che la cartina chiamava South Dublin.
Solo quando la macchina si fermò, Daniele alzò lo sguardo.
Erano arrivati in una via stretta, affiancata da molte case basse e dal tetto caratteristicamente a punta. I loro colori erano per lo più scuri e la tinta dei tetti si fondeva con il cielo grigio. Il viale era deserto e si respirava ossigeno misto a tranquillità.
Ogni casa aveva una piccola staccionata o muretto che la divideva dal marciapiede e dalla strada.
Doran fermò la macchina davanti a un cancello, che nascondeva una casa a due piani.
Scesero e scaricarono la valigia di Daniele.
Il numero sopra il campanello era il ventidue e l’indirizzo coincideva con quello che suo padre gli aveva detto.
Un piccolo sentiero di ghiaia si srotolava tra loro e l’ingresso alla casa, affiancato da due ali di erba verde e corta.
I due aprirono la porta di legno scuro e entrarono nell’abitazione.
Doran si affrettò ad aprire le persiane e le finestre per far entrare la poca luce che filtrava tra le nubi.
-Dammi pure la tua valigia, la porto nella tua camera- disse a Daniele, che subito fece come gli veniva detto.
Il primo pensiero che Daniele ebbe su quello spazio, fu che gli piaceva.
L’ingresso, ora che Daniele lo vedeva bene, finiva dopo un metro, dove c’erano un appendiabiti e una piccola scarpiera, e dava in una sala piuttosto grande, rialzata di due gradini, con al centro un tavolo rettangolare e quattro sedie.
La luce entrava da una grande vetrata lievemente socchiusa, che occupava quasi tutta la parete davanti a lui, in fondo alla stanza; i riflessi di quel pallido sole rimbalzavano sul pavimento di legno lucido e ramato.
Sulla destra si aprivano due porte, intervallate da un grande camino incassato nella parete, che sembrava non essere stato usato da un bel po’ di tempo.
Un divano stava davanti alla vetrata, rivolto verso il centro della stanza. Il muro alla sinistra di Daniele teneva in piedi una grande biblioteca, perlopiù vuota, e aveva una porta nell’angolo in cui si incontrava con la vetrata.
Daniele fece un giro all’interno della stanza. C’erano un paio di piante dietro al divano e vicino all’ingresso e dalla vetrata si vedeva una parte di giardino, che finiva in una siepe alta più di lui e di un colore verde scuro, fittissima, che nascondeva la proprietà accanto a quella di Doran.
-Il bagno è quella porta a destra, la porta a sinistra invece è la cucina-
Doran era sbucato dietro di lui e gli stava indicando il muro con il camino. Daniele lo seguì e l’irlandese aggiunse: -Come vedi, tra la sala e la cucina c’è un piccolo corridoio e in mezzo al corridoio c’è questa scala a chiocciola- indicò una scala a chiocciola in ottone che saliva al piano superiore, bucando il soffitto . A Daniele ricordò un cavatappi che entrava nel sughero. -Porta all’appartamento superiore, nel quale vivo io. Se avrai mai bisogno di me, questa cordicella – indicò una corda bianca che pendeva dal soffitto -fa suonare una campanello. Spesso chiudo la porta a chiave sopra, quindi prima di salire suona, ricordatene-.
Daniele annuì.
-Questo è il tuo spazio, quello di sopra il mio. Sono sicuro non ci saranno problemi, comunque se avrai qualcosa da chiedere chiama pure- disse ancora l’irlandese, indicando ancora la cordicella.
A Daniele andava benissimo, preferiva stare da solo e non condividere il suo alloggio con nessuno.
Doran si congedò, dicendo che andava a sistemare alcune faccende di sopra, e salì la scala a chiocciola.
Daniele ne approfittò per vedere la camera da letto, dalla parte opposta al bagno e alla cucina.
Entrando fu assalito dall’odore di erba che entrava dalla finestra aperta, che dava sullo stesso giardino che aveva visto dalla vetrata della sala.
Era piccola, ma abbastanza confortevole: il letto aveva un materasso grande e soffice e vi erano anche un armadio nel quale ripose i suoi vestiti e un piccolo comodino con una lampada elettrica.
Il muro aveva una tonalità verde molto gradevole, che si fondeva con il marrone chiaro delle assi del pavimento.
Prese il cellulare dalla tasca e chiamò il padre. Gli raccontò del viaggio e di Doran e gli disse che andava tutto bene per il momento, ricevendo conferma dell’identità di Doran dal padre. Non si dimenticò di lamentarsi per l’umidità.
Terminata la chiamata si sedette sul bordo del letto e si rilassò.
Fu in quel momento che Daniele si scoprì molto stanco. Il peso del viaggio iniziava a farsi sentire e lo assalì il desiderio di dormire.
Dopo essersi assicurato che la porta fosse accostata, si stese sul letto che -il ragazzo lo constatò con assonnata sorpresa- era tiepido
Si girò verso la finestra, sprofondò nel cuscino che sapeva di pulito e si addormentò vestito.

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