Come Non Hai Mai Guardato Prima


Parte I

Daniele aveva detestato fin dal primo istante l’idea di fare quel viaggio.
Se non fosse stato per suo padre, che l’aveva preso alla sprovvista quella sera di luglio, non sarebbe stato in quell’aeroporto, a quell’ora indecente del mattino, in mezzo alla calca di gente che attendeva la propria chiamata all’imbarco.
A che serviva viaggiare, quando poteva vedere ogni angolo del mondo dal computer di casa sua?
Troppo nervoso per stare seduto, volgeva lo sguardo sulle vetrate, sui muri, sui tabelloni, sulle mattonelle del pavimento.
Si sentiva forte come solo un diciottenne credeva di essere.
Più in alto di una spanna rispetto a tutti gli altri: così si vedeva in confronto a quell’accozzaglia di viaggiatori, chini sulle loro valigie, lo sguardo assente, neanche stessero aspettando un aereo diretto all’inferno.
L’annuncio della sua partenza gli balenava ancora davanti agli occhi.
Quattro giorni prima. Era rincasato per cena e subito si era accorto che qualcosa non andava. I suoi genitori non facevano che scambiarsi occhiate maliziose e complici ogni volta che apriva bocca.
Alla fine, con un gesto teatrale, suo padre aveva tirato fuori un biglietto d’aereo e il cuore di Daniele aveva avuto un tuffo.
Il tempo era volato, il giorno della partenza si era divorato i giorni che lo precedevano; aveva opposto una vana resistenza all’idea di partire per un paese che non conosceva neppure, che non aveva mai considerato come qualcosa di più che un sasso scagliato a caso in un freddo oceano sconosciuto.
Scuotendo la testa al ricordo di quella sera, si sedette su un sedile di plastica arancione. Davanti a lui una vetrata lasciava intravvedere l’alba e le sagome degli aerei, fermi come giocattoli a poche decine di metri da lui.
-Ricordami ancora perché lo devo fare- mormorò distrattamente più a se stesso che a qualcun altro
-Perché ti farà bene. È un occasione per vedere qualcos’altro che non sempre i palazzoni grigi della nostra città!-
Suo padre non era, al contrario di lui, quel che si suol dire un cittadino.
Non amava la città, la vita notturna, le luci e i locali che tanto piacevano al figlio. Lui era nato davvero una spanna sopra gli altri, in un paese incastrato tra due valli, ai piedi di montagne dalla cima bianca e lucente, brillante come un turbante di seta bianca di neve eterna..
Quando era piccolo, Daniele ascoltava infantilmente affascinato i suoi racconti di montagne invalicabili, di stambecchi e alberi imponenti, di profondi silenzi e rumorose emozioni.
Poi, anche lui aveva dovuto sottostare alle leggi del tempo, ed era cresciuto.
Aveva iniziato a conoscere la città, si era fatto degli amici e aveva iniziato a vivere in una realtà solida come le case tra le quali si muoveva ogni giorno.
Una realtà di cemento.
A Daniele, tuttavia, andava bene così e non avrebbe chiesto di meglio che passare l’estate con i suoi amici, nel caldo catramoso dei suoi palazzi.
Quel giorno, però, guardando fuori dal vetro che aveva di fronte non vedeva tetti, antenne e semafori.
Niente luci lampeggianti, motorini e musica ritmata.
Vedeva l’orizzonte, con la sua alba pallida e assonnata dove alcune nubi notturne, ritardatarie, erano state sorprese dai raggi di sole e, imbarazzate, si tingevano di rosa.
Era una bella vista, e Daniele ci avrebbe fatto caso se non fosse stato di cattivo umore.
Piano piano però, si perse in quelle sfumature ed iniziò a rilassarsi.
Fu la voce metallica dell’altoparlante a riportarlo alla realtà.
Il suo volo venne annunciato con la delicatezza di un sacco di cemento che cade al suolo e alcune persone si alzarono dai loro posti: un vecchio con una valigia di cuoio, una madre con tre bambini dai capelli color rosso fuoco e un uomo vestito in maniera ineccepibile, probabilmente in viaggio d’affari.
Daniele si alzò e prese la sua valigia, mentre suo padre già gli era di fianco.
Il ragazzo si portò una mano tra i mossi capelli castani, che si erano rifiutati di obbedire alla dittatura del pettine poche ore prima. Le dita lunghe e sottili aggiustarono la presa sul bagaglio.
Guardò ancora una volta verso le piste e il vetro gli trasmise per metà l’immagine di un volto sottile attorno a due occhi verde scuro, duri e fissi.
-Partire o non partire? Partire per il solo gusto di partire, oppure rimanere senza partire desiderando partire? Tanto vale partire!- mormorò suo padre tutto d’un colpo.
-Che cosa?- fece confuso Daniele, strappato dalla linea dei suoi pensieri.
-Oh nulla, è soltanto una frase che ci dicevamo quando eravamo giovani. So che ti fa strano, ma sono stato giovane anche io. Anche se non me lo ricordo bene. Sarà la vecchiaia!-
Daniele non disse nulla e si limitò a stringere più forte la valigia.
Gli sembrava che dei fili invisibili ai quali non poteva opporsi lo trascinassero insieme agli altri passeggeri
Si accodarono all’imbarco numero tredici, insieme a una decina di altre persone.
Nella fila c’erano anche il vecchio, la madre con i tre bambini e l’uomo d’affari.
Quando mancarono solo più un paio di persone davanti a loro, Daniele sentì suo padre dire: -So che questo viaggio non ti va a genio, Daniele. Credimi, non farei mai nulla per farti un dispiacere. Ma c’è una cosa che devi assolutamente evitare. Di arrivare alla mia età, e renderti conto di non aver mai avuto le esperienze che desideravi. Qualunque cosa tu voglia diventare, non lasciare i tuoi sogni su una cartolina o in un desiderio, vai tu da loro- lo guardò fisso negli occhi e sorrise -Adesso va’ e divertiti!-.
Gli diede una pacca sulla spalla e poi una spinta verso il gate, e non smise di sorridergli fino a quando la gentile signorina del controllo biglietti non l’ebbe fatto entrare nel corridoio sospeso che portava all’aereo.
Daniele e la sua valigia scomparvero dentro il tunnel che portava al boccaporto.
Le altre persone, in coda dietro il padre, sciamarono attorno alla sua figura immobile, e il suo sorriso si sciolse, come diluito e strappato via dal movimento degli altri passeggeri, facendolo scomparire come una foglia in un rapido fiume.
Allora si girò e diede le spalle a suo figlio e al cancello, sul quale stava scritto a caratteri digitali e arancioni: “13 – Dublin Airport”.

Fratello Come Me


-Bastardo…-
Nelle volute pigre del fumo di sigaretta il grumo di sangue tracciò prepotentemente una linea verticale tra le labbra di Luca e la faccia del soldato tedesco.
La figura dalle mani e piedi legati si mosse appena sul pavimento polveroso, gemendo.
-Lascialo stare, ci serve vivo-
Le parole del Poli fendettero la nebbia di tabacco, lente e precise,
Si spostò sulla sedia cigolante e continuò a giocare all’ennesima partita a briscola.
Teneva le carte nella mano sinistra, anche se non era mai stato mancino.
La mano destra aveva avuto un brutto incontro con una granata tedesca che gli aveva tranciato di netto tutte le dita, tranne una.
Da qui il suo soprannome. Il suo nome vero era Guglielmo, ed era il capitano. Ma per tutti era il Poli.
-Sono stanco di trattare questo schifoso come un principino. Sono sicuro che a noi riserverebbero un trattamento di tutt’altro tipo-.
Luca era forse quello, tra tutti, che odiava maggiormente i tedeschi. Sua madre era stata malmenata tre giorni prima dalle SS senza motivo. Per fortuna se l’era cavata solo con qualche livido, ma a Luca la faccenda bruciava ancora.
“Che me ne capiti uno sotto mano” aveva detto “uno solo di quei bastardi e gli faccio passare le pene dell’inferno!”
Giacomo e Bepi, al tavolo, non diedero segno di aver notato il fastidio sempre crescente di Luca.
Se ne stavano seduti, la testa abbassata, dentro i loro abiti spessi che erano diventati le loro divise.
Entrambi troppo giovani per essere padri, troppo vecchi per essere dei ragazzi.
-Luca- disse il Poli mentre pescava una carta -Perché non vai a vedere come se la cava Fausto, in vedetta? Potrebbe aver bisogno di qualcosa-.
Una richiesta che in realtà era un ordine.
Luca si fermò, guardò il Poli, poi il tedesco per terra.
Camminò fino all’angolo dove tenevano le armi e prese il suo moschetto automatico Beretta, dalla familiare canna traforata, e mise un caricatore da trenta colpi.
-Prendi anche il Carcano- disse il Poli.
Luca afferrò anche il fucile davanti a lui.
-Sissignore…- mormorò.
Fece scattare l’otturatore del Beretta con un suono metallico.
Come se non sapessi scegliermi le armi da solo.
Luca sbatté gli occhi quando uscì dalla catapecchia che serviva al gruppo come riparo provvisorio. Il pomeriggio aveva ormai divorato la luce del mattino, e i raggi morbidi scivolavano come miele tra le foglie e i rami.
Davanti a lui un sentiero fendeva pacatamente l’erba. Dietro la baracca la montagna saliva e il bosco diventava più fitto, mentre davanti a lui degradava in un prato e poi bruscamente finiva, lasciando scoperta la valle al di sotto.
Si potevano vedere i due paesi appoggiati uno dietro l’altro, con le loro case chiare, e poi le curve dei colli e i profili delle valli.
Era un buon posto in cui sostare e tenere un campo.
Luca seguì il sentiero di terra che culminava in un becco roccioso, come se la montagna avesse avuto un ultimo fremito prima di fermarsi sul vuoto.
Tra quelle rocce, nascosto alla vista, stava Fausto, un partigiano come lui. Un suo amico.
Luca si chinò e batté quattro colpi veloci, per far capire a Fausto che era lui, poi si infilò tra le rocce e sparì alla vista.
Strisciò per un paio di metri, poi lo spazio si aprì dando forma ad una piccola cavità naturale che dava sulla valle.
La scura figura distesa di Fausto era lì ad attenderlo.
-Buongiorno! Dimmi che sei venuto a darmi il cambio-
Luca sorrise, stendendosi accanto a lui.
-Purtroppo no- disse – il capitano mi ha mandato a vedere se avevi bisogno di qualcosa o se c’erano problemi-.
-Problemi nessuno, ma potresti dire al Poli che se vuole può mandarmi qui un bicchiere di vino e una bella ragazza per passare il tempo!-
-Glielo dirò se vuoi-
Fausto rise.
Prese dalla tasca destra della sua giacca verde scuro un pacchetto di sigarette e ne offrì una a Luca, che accettò di buon grado.
-Mi è giunta voce che due settimane fa ci sia stato un rastrellamento al paesino qui sopra- disse Fausto -Il giorno prima avevano perso trenta uomini in un’imboscata e per pareggiare i conti hanno fatto schierare tutti gli abitanti in fila- tirò l’ultima boccata dalla sigaretta, la spense contro la roccia e la appoggiò da parte. Riprese il suo fucile.
-Ogni tre ne sceglievano uno- mormorò fissando il vuoto davanti a se -Ed erano per lo più donne e bambini, visto che gli uomini sono al fronte o tra le montagne come noi, sotto un paio di massi sudici e puzzolenti. Ne hanno scelti sessanta e li hanno fucilati-.
L’aria sibilò forte tra le fessure della roccia, arrivando fino a loro dopo aver accarezzato tutta la valle.
Luca rimase in silenzio per un po’.
-Buon Dio, avevamo così tanti amici lassù- disse d’un tratto Fausto, con voce mesta -Francesco, con il suo mulo, che portava sempre le sue verdure al mercato. Don Gino, te lo ricordi Don Gino? Ha cercato di fermarli, si è buttato sul capo di quella banda di delinquenti. L’hanno ammazzato-.
Luca finì la sigaretta e la buttò di sotto dopo averla spenta.
Rimasero lì per un po’, in silenzio.
-Il capitano non si fida di me- disse Luca all’improvviso, più a se stesso che all’amico -mi ha fatto uscire con una scusa. Credeva davvero che avrei fatto qualcosa a quel prigioniero-.
Fausto lo guardò.
-Guglielmo è una brava persona- rispose -vuole solo il nostro bene-
Si bloccò, con un’espressione perplessa.
Luca pensò che fosse molto buffo, prima di rendersi conto che qualcosa non andava.
C’era troppo silenzio. Gli uccelli non cantavano più.
-Hai buttato giù la sigaretta?- sussurrò Fausto.
Tolse la sicura al Carcano, lo stesso fucile che aveva Luca a tracolla.
Luca sbiancò. Un brivido gli fece rizzare i capelli sulla nuca.
-Si, io.. era spenta, pensavo..-
Un fischio, un sibilo, niente di più. Poi la terra ebbe un balzo e schegge di pietra volarono in ogni direzione.
I colpi da mortaio caddero dietro di loro, davanti a loro. Su di loro.
Uscire di lì.
Fausto disse qualcosa che Luca non capì.
Ormai sentiva soltanto più i fischi e le esplosioni orrendamente vicine. Tutto sembrava a Luca rallentato, opaco.
Era così che ci si sentiva dopo un’esplosione? Forse avrebbe perso anche lui le dita della mano come il Poli.
Si riscosse.
-Andiamo via!-
Non sentiva bene la propria voce.
-Non li vedo!- disse Fausto sopra il grido dei mortai -Non riesco a vederli, non riesco..-
Uno sparo rimbombò tra le colline, e una zolla di terra si impennò a pochi centimetri dai loro visi sporchi di polvere.
Un cecchino! Siamo come dei topi in trappola!
-Usciamo di qui!-
Luca strattonò Fausto, che sparò un colpo verso le colline, poi un altro.
Il suono del fucile dentro quella piccola cavità per poco non rese sordo Luca.
Le bombe urlavano e l’aria era satura di polvere.
Fausto continuò a sparare.
Stava perdendo il controllo.
Luca fece la prima cosa che gli venne in mente: si avventò sul fucile di Fausto e cercò di strapparglielo di mano.
Fausto, preso alla sprovvista, non riuscì a trattenerlo.
Poi una luce di paura passò nei suoi occhi.
-Andiamocene!-
Si voltò e prese a strisciare verso l’uscita.
Luca lo seguì lungo lo stretto pertugio, mentre i mortai continuavano a lanciare proiettili mortali attorno a loro.
Finalmente uscì all’aria aperta e insieme a Fausto iniziò a correre verso il vecchio casolare dove erano rimasti gli altri.
-Tirano a caso- disse Fausto. Luca si accorse che i mortai stavano tacendo, poiché Fausto non aveva dovuto più urlare per farsi sentire.
Imboccarono il sentiero il più veloce possibile, costeggiando il bosco a ritroso, raggiungendo finalmente il pianoro erboso.
Si guardarono intorno e all’inizio rimasero spaesati, senza capire cosa ci fosse che non andava, poi capirono.
La casa non c’era più.
Davanti a loro rimanevano solo delle grigie rovine, pietre e assi di legno spezzate.
Luca rimase incredulo a fissare il luogo dove Giacomo e Bepi, nella sua mente, stavano ancora giocando a carte.
Non era rimasto lì perché glielo aveva ordinato il Poli. E lui l’aveva quasi odiato per quello.
In un attimo, le vite dei loro compagni, vicini di casa, amici da una vita, erano svanite.
Il colpo di mortaio doveva aver colpito la parte anteriore della casa, dove il Poli, Giacomo e Bepi stavano seduti, poiché il muro dalla parte opposta era ancora in piedi.
Fausto si chinò e raccolse tra i detriti qualcosa.
Una carta da gioco: un fante di picche sgualcito e bruciacchiato.
Ad un tratto Luca colse con la coda dell’occhio un movimento.
Qualcosa si dibatteva sotto i calcinacci. Al suo orecchio giunse un lamento soffocato.
Luca sperò ardentemente che qualcuno fosse sopravvissuto, che non fosse stato tutto cancellato.
Dio, Giacomo ed io andavamo a scuola insieme!
No, qualcuno doveva essere ancora vivo!
Si chinò e vide spuntare una mano bianca da sotto le macerie. Iniziò a spostare sassi, ciottoli e pezzi di legno, tegole e terra.
Fausto lo raggiunse e gli diede una mano.
Alla fine riuscirono a liberare l’uomo dai detriti.
Non era il Poli o Bepi.
E non era nemmeno Giacomo.
Luca fece un passo indietro e Fausto rimase immobile.
-Non può essere..- mormorò Luca mentre guardava intorno a sé.
Lasciò cadere il fucile e si gettò nuovamente tra le rovine, cercando un segno di vita, una traccia dei propri compagni.
Dopo qualche minuto si trovò le mani graffiate, un paio di un unghie rotte e la fronte imperlata di sudore caliginoso.
Si lasciò cadere per terra. Da lì, vide Fausto mentre liberava il soldato tedesco dalle corde che gli tenevano strette le caviglie. Slacciò la borraccia dal proprio fianco e gliela appoggiò alle labbra.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Luca si alzò, raccolse il Carcano, raggiunse il soldato seduto a terra e gli sferrò un colpo in faccia con il calcio del fucile.
-Bastardo! E’ tutta colpa vostra, vostra!-
Girò l’arma e la puntò verso il tedesco che si copriva il volto con le mani.
-Luca, no!- cercò di fermarlo Fausto gettandoglisi addosso -Luca.. calmati! Cerca di ragionare..-
-Ragionare un cazzo! E’ colpa sua, è solo colpa sua! Sua e di tutti i suoi amici pelati del cazzo! Li hanno uccisi tutti, tutti! E adesso io lo ammazzo!-
Tolse la sicura al Carcano e fece fuoco, ma era troppo agitato e Fausto lo stava strattonando. Il colpo si perse nella boscaglia dietro la casa.
Fausto lo spinse violentemente e lo buttò a terra, dove Luca rimase.
Le lacrime presero a scorrere sulle sue guance, scavando solchi nella polvere.
-Sono morti.. sono morti..Giacomo, Guglielmo..-
Si mise in ginocchio e appoggiò le mani davanti a lui, sull’erba sporca di terra.
Pensò a Bepi, al Poli. A quando Giacomo lo aveva aiutato nella semina e a quando Luca aveva cenato con lui in cortile, un anno prima, con tutta la famiglia.
Passò un tempo indeterminato in quella sorta di apatia prima di sentire Fausto toccargli la spalla, tirarlo per un braccio e rimetterlo in piedi.
-Avanti, andiamo..- mormorò.
Luca si asciugò il viso, dimentico del mondo intorno a lui.
Probabilmente i soldati nemici stavano avanzando verso di loro ed era bene lasciare quel luogo.
Vide Fausto rimettere in piedi il soldato tedesco che tossì e si pulì la giacca strappata.
Era rimasto miracolosamente illeso, a parte qualche escoriazione e un botta dolorosa alla caviglia che lo faceva lievemente zoppicare.
Fausto raccolse da terra il Beretta di Luca e glielo ridiede insieme al Carcano.
Luca lo guardò.
Negli occhi di Fausto vibravano delle lacrime, a stento trattenute. Era pallido.
-Dobbiamo cercare di salire e ricongiungerci con il battaglione di Federico-.
Federico era il fratello di Guglielmo e si trovava sopra di loro, dietro il colle.
Iniziarono a camminare, in fila. Fausto davanti, il fucile Carcano in mano. Il soldato tedesco, con la nuca graffiata e sporca. Luca, il mitra Beretta spianato, la canna traforata rivolta davanti a lui.
Camminarono per circa un’ora e mezza, tra sentieri macchiati di rovi, che si infiltravano sul terreno come un’infezione, e alberi sottili ed appuntiti alcuni, robusti e frondosi altri. Il sole ormai stava per tuffarsi dietro i colli e il bosco diventava sempre più buio.
Fausto sperava di poter arrivare prima di notte, ma ad un tratto il tedesco dietro di lui inciampò e cadde.
Non furono più in grado di tirarlo su.
Decisero allora di fermarsi in quel punto e muoversi la mattina.
Il soldato dalla divisa grigia si mise faticosamente a sedere contro un albero e lì rimase, ansimando.
Luca si avvicinò a Fausto.
-Perché dobbiamo portarcelo dietro? E’ solo un peso, non fa che rallentarci. Sappiamo benissimo che ci stanno cercando, che sanno che siamo qui in giro. Se hanno i cani abbiamo ben poche speranze. Dovremmo liberarcene-.
Di fronte al silenzio del compagno, si volse a guardare il prigioniero.
Sembrava un fantasma, sempre nella stessa posizione, troppo stanco anche solo per allungarsi e prendere la borraccia d’acqua vicino a lui. Il sudore gli gocciolava dalle fronte sulle guance. Uno squarcio si apriva nei pantaloni all’altezza del ginocchio e lasciava intravedere una grossa escoriazione sulla pelle emaciata.
La sua mano si mosse verso la tasca della giacca.
Subito Luca gli fu addosso, divorando la distanza che li separava, puntandogli l’arma in volto.
-Tira fuori quello che hai lì dentro, e fallo lentamente-
Il tedesco lo guardò con gli occhi arrossati dal sudore e dalle lacrime, ed estrasse un pezzo di carta.
Luca glielo strappò di mano.
Subito il soldato ai suoi piedi emise un gemito disperato, allungandosi verso di lui per riprenderlo, gli occhi spalancati, l’espressione atterrita. Aveva la saliva alla bocca mentre compiva uno spasmo che trascendeva le sue capacità.
Lo sforzo fu tale che cadde di lato, le braccia allargate come ad abbracciare la terra sotto di lui.
Luca guardò la foto.
Ritraeva una donna e una bambina, abbracciate, sull’uscio di una casa.
La bambina, che doveva avere più o meno dieci anni, aveva i capelli chiari e le lentiggini sul viso, mentre la donna aveva capelli neri e un sorriso dolce.
Fausto rimise a sedere l’uomo. Prese la borraccia e gli diede da bere.
Luca rimase a guardare quella foto.
Cercava di cogliere ogni minimo dettaglio della casa che si vedeva sullo sfondo, dell’erba che sfiorava i tre gradini sopra i quali stavano la donna e la bambina. Le pensò vive, in carne ed ossa, colorate e vivaci,. La donna era forse una moglie affettuosa, che preparava la cena per il marito quando sarebbe tornato da lavorare, stanco ma sorridente nel vedere la propria bambina corrergli incontro con la sua bambola preferita.
Cercò disperatamente di trovare le differenze con sua madre e sua sorella.
Non ce la fece.
Nella sua mente rimase invece il pensiero che quell’uomo era a centinaia, forse migliaia di chilometri da casa, magari contro il suo volere, chiedendosi se avrebbe mai più rivisto le persone che amava.
Luca si chiese se avesse una fattoria, o un campo come il suo. Se amasse andare al bar il venerdì sera. Se avesse una madre in pensiero per lui.
Alla fine si chinò e rimise la foto nella tasca sul petto del soldato, che lo guardò e abbozzò a un fiacco sorriso.
-Grazie..- biascicò, incerto.
Luca infilò le mani nella tasca dei pantaloni ed estrasse un portafoglio sottile. Porse un foglietto al soldato.
Era una fotografia. Due donne, anche queste, sedute su una panca. Sua madre e sua sorella.
Il tedesco guardò la fotografia, poi Luca.
-Io.. ho visto già questa donna- disse -io ero.. a paese, giù.. abbiamo fermata ma nostro capitano è stato… cattivo, dice così, si? Trattata male… noi soldati mai piaciuto lui-.
Parlare sembrò procurargli molta fatica.
Luca capì che aveva visto sua madre il giorno in cui era stata maltrattata, ma non riuscì a dire niente. Il tedesco appoggiò il capo all’albero dietro di lui e non si mosse più.
Fausto si sedette vicino a Luca.
-Tu credi.. credi che voglia tornare a casa?-
L’amico lo guardò di sottecchi.
-Tutti i soldati vogliono tornare a casa. Lui è un soldato come gli altri. Ora lo vedi qui, così, ma prova a pensare se lo avessi incontrato in altre circostanze- Fausto spezzò un rametto tra le dita- Avreste magari bevuto insieme, lui avrebbe insistito per farti venire a cena a casa sua. Forse tu credi che non ami, non soffra se viene ferito? Che non muoia come moriamo noi, che non rimanga avvelenato dai gas? Ciò che cambia da lui a noi è solo una divisa. Ma non è diverso da noi, ha soltanto una diversa uniforme. E’ proprio così. Ha soltanto la sfortuna di avere l’uniforme sbagliata-.
Rimasero in silenzio, ascoltando il bosco.
Poi Luca sentì qualcosa che non erano i gufi e lo stormire delle fronde.
Sentì abbaiare.
I tedeschi avevano sguinzagliato i cani, ed erano più vicino di quanto pensassero.
Fausto prese le armi.
-Che cosa facciamo con lui?- chiese Luca
-Non lo so- rispose Fausto
-Vedrà dove andremo, dirà loro come trovarci-
-Lo vuoi uccidere?-
Luca rimase in silenzio. Ripensò alla donna e alla bambina dai capelli biondi.
-No- disse, guardando il tedesco che si era svegliato e inquieto li ascoltava, cercando disperatamente di capire cosa dicessero.
-Luca, muoviti, dobbiamo andarcene ora!-
Fausto si era già inerpicato sul sentiero.
-Va bene.. arrivo-
Luca si voltò, ma non si mosse.
Si girò poi verso il soldato tedesco e gli si avvicinò dopo ancora un attimo di esitazione.
Gli diede la propria borraccia con l’acqua e una delle due piccole pile elettriche che aveva con se.
Lo guardò ancora una volta negli occhi, non più come un nemico, o un tedesco. Lo guardò e lo vide semplicemente come un uomo che voleva tornare dalla propria famiglia.
Poi si volse, iniziò a inerpicarsi verso l’alto e scomparve nell’ombra.

-Wo sind sie hin gegangen?-. Dove sono andati.
La parole del comandante caddero su di lui.
Lo avevano trovato grazie alla pila dell’italiano. Un impulsivo gesto di misericordia di uno sconosciuto.
-Ich..-
Il comandante si chinò.
-Wo sind sie hin gegangen?- I cani ringhiavano. Ma forse era il comandante.
Si era fatto notare con quella luce slavata. I suoi compagni lo osservavano. Non gli avevano nemmeno chiesto come stava.
-Sie sind wider runter gegangen – Sono andati giù, rispose.
Il comandante lo guardò.
Sì erano andati giù.
Non su, giù.
Una sola parola, un mondo di differenza.
Fu così che il soldato tedesco ridiscese con la sua squadra da quel colle infernale.
Fu così che Luca e Fausto ebbero salva la vita.

Andragos e Pistios – Vincitore del concorso di Luserna


Tema libero, quindi avevo mille opportunità. Mi sono rifatto al mito dell’Eneide per la storia, mentre i nomi dei due derivano da due parole greche esistenti (modificate opportunamente), come anche il nome di Phobos (che però non è stato modificato).

=)

La luce del sole giocava con la spada di latta che era appoggiata tra l’erba alta e verde, a riposare, mandando bagliori chiari e allegri sul volto del ragazzo bruno che stava seduto accanto a lei.
Era una giornata di vento leggero e il cielo era terso, solcato da alcune strisce di nubi che lo rigavano quasi per dispetto. Ai piedi del giovane uomo si stendeva la campagna della sua infanzia e della sua adolescenza; l’unico rumore che si poteva ascoltare era il respiro dell’erba che lo nascondeva alla vista e il cantare degli uccelli sui rami degli alberi vicini, disposti in filari a perdita d’occhio.
-Ehi, Pistios- disse sorridendo, ad occhi chiusi -Hai mai sognato di volare?-
Pistios si stese appoggiando la testa vicina a quella del suo amico, una delle spade di latta con le quali avevano giocato stretta in pugno, mettendosi nel verso opposto in maniera parallela del primo giovane. Aprì gli occhi celesti e guardò l’azzurro sopra di lui, come se gli potesse fornire la risposta.
-No mai. E tu Andragos?-
-Quasi sempre. Quasi ogni notte-.
-E com’è?- Pistios staccò un filo d’erba e se lo mise in bocca, prima di accavallare le gambe.
-Meraviglioso. Un giorno mi piacerebbe saperlo fare. Volare come un’aquila, come fanno gli dei, vedere tutto dall’alto, poter andare dove mi pare. Libertà, ecco cosa sarebbe-.
Pistios non rispose, ma capiva perfettamente cosa Andragos intendesse dire.
Una rondine passò tracciando una macchia fumosa sul celeste di quel cielo primaverile, che faceva da tetto sopra la loro gioventù. -Andare lassù, dove osano camminare le nuvole-
La voce di Andragos si ruppe e calò il silenzio tra i due, interrotto solo dal rumore dei sogni che riempivano le loro menti. Un silenzio assordante.

L’aria era immobile mentre il cavaliere si chinava sul collo della sua cavalcatura e esaminava le tracce sul terreno. La sua armatura chiara e le sue vesti bianche erano sporche di terra. Attorno a lui il sottobosco era immerso in una penombra azzurrina propria dei minuti precedenti all’alba e tutto era avvolto da una pesantezza tipica del sonno profondo di tutte le cose.
Le tracce erano chiare e inequivocabili, ma lui non era tranquillo.
-Pistios, trovato niente?- Un secondo cavaliere sopraggiunse alle spalle del primo. Portava una lancia sottile e cingeva, come il suo compagno, una spada corta. Il suo cavallo era nero come l’inchiostro.
-Sì. Le tracce sono molto chiare-
-Bene!- fece l’altro -Allora non ci dovrebbero essere troppi problemi.
-Al contrario: sono un po’ preoccupato, Androgos, amico mio- Pistios corrugò la fronte.
-Non capisco- esclamò l’altro.
Pistios fece voltare il suo baio e indicò una serie di tracce. -Secondo le nostre informazioni, dovrebbero essere in poco meno di venti. Un gruppo così composto può facilmente nascondere le proprie tracce, specialmente in un terreno come questo-.
Si guardò intorno con i suoi occhi chiari. La guerra che li aveva portati fino in quella regione che non conoscevano li aveva fatti diventare cauti. La morte che avevano visto avvicinarsi sempre di più, camuffata da spada o da freccia li aveva resi ancora più attaccati alla vita. Più volte i due si erano salvati la vita a vicenda, e quella missione di ricognizione era come tante altre.
-Sai che quegli idioti degli Ischioti non vanno mai tanto per il sottile. Si saranno dimenticati-
-È certamente come dici tu, ma questo posto non mi piace. Torniamo al campo. Ti devo ancora una calice di vino per ieri sera – rispose Pistios sorridendogli, memore che poche ore prima Andragos aveva dichiarato i suoi sentimenti alla ragazza che egli amava da tempo. Andragos stesso sorrise, ripensando alla medesima sera e alla felicità che aveva provato quando si era scoperto contraccambiato.
Pistios diede di sperone al suo cavallo facendolo voltare del tutto, mettendolo al passo, lo sguardo fisso sugli alberi scuri e silenziosi.
Fu in quel momento che il cavallo di Andragos si abbattè al suolo, in un nitrito disperato che si trasformò in un cupo gorgoglio di sangue.
Una freccia gli aveva reciso la trachea, mentre altre due lo avevano centrato nell’ampio ventre. Andragos fu sbalzato di sella e cadde rovinosamente, rialzandosi a fatica. Dal bosco irruppero urlando una decina di uomini; erano armati di spade e lance ma sprovvisti di scudi e vestivano armature di cuoio sottile. Truppe leggere.
Pistios domò il suo cavallo, innervosito e spaventato dall’odore del sangue e dalla comparsa degli uomini urlanti, portandolo tra Andragos e gli avversari, permettendo al primo di alzarsi e raccogliere la sua lancia.
Una freccia colpì il cavallo di Pistios, che si impennò violentemente, sbalzando l’esploratore a terra. Pistios si rialzò velocemente ed estrasse la spada, mettendosi fianco a fianco con Andragos. Contò rapidamente i nemici. Erano almeno undici. Troppi.
-Pistios..- mormorò l’altro, stringendo convulsamente l’asta della lancia.
-Tranquillo Andragos. Ne usciremo- disse con voce bassa Pistios, mentre il suo cavallo nitriva spaventato, girando in cerchio e alzando polvere dal terreno.
I nemici li avevano accerchiati, approfittando del relativo spazio tra gli alberi. Erano uomini dalle barbe incolte e dalla pelle sporca. Vagabondi più che soldati; gli Ischioti erano rinomati per stringere alleanze con chiunque potesse servirli, fossero essi barbari o greci.
Un grosso uomo, dalla pelle del viso solcata dalle cicatrici e con un occhio completamente vitreo e cieco sputò in terra e parlò in un greco stentato.
-Luridi e schifosi mangia vermi! Ora io e miei ragazzi ci divertiremo un po’ con voi!-
Senza aspettare alcun segnale, tutti gli altri nemici si buttarono addosso ai due esploratori.
Pistios vide la paura affacciarsi sul volto del suo migliore amico, e tutti i loro attimi passati insieme si fusero nella sua mente.
No, non poteva finire tutto così, alla mercè di una decina di rozzi barbari.
Fece un giro su se stesso e abbattè il primo uomo mozzandogli la testa di netto. Il sangue gli schizzò la veste e lui approfittò dello stupore degli avversari dietro al primo per attaccarli, colpendone uno all’inguine e un altro allo stomaco, compiendo un elegante arabesco con la spada. In quel momento una freccia lo raggiunse a tradimento e gli si piantò tra le costole. Il respiro gli si mozzò, fu disarmato e tenuto a terra, ma non lo uccisero.
Da quella posizione potè orribilmente vedere il suo amico per terra, trattenuto da due di quegli uomini orrendi che ridevano sguaiatamente, pregustando il divertimento.
-Ehi Deimos, questo qui si agita un po’ troppo!- esclamò un uomo dalle orecchie piccole che stava immobilizzando Androgos mentre tentava di liberarsi, disperatamente.
Deimos, l’uomo che per primo aveva parlato loro, si avvicinò, senza che Pistios potesse agire in alcun modo.
Non potè fare nulla quando quello che doveva essere il capo dal volto coperto dalle cicatrici snudò la propria spada.
Non potè fare nulla quando vide la lama penetrare nella schiena di Andragos inchiodandolo a terra; nulla, se non guardare gli occhi del suo compagno spalancarsi, perdere tutta la loro vitalità mentre la vita usciva da dentro di lui insieme al sangue dalla sua ferita, mentre il ferro infieriva sulla sua carne.
L’ultimo sguardo di Andragos si perse nel vuoto, senza vedere il viso del suo amico che lo stava guardando.
L’assassino rise. Rise del suo omicidio a sangue freddo e senza motivo. Rise per una vita presa e gettata via senza alcun riguardo e risero anche i suoi compagni. Una risata che non aveva nulla di umano, una risata che era stata pagata con il prezzo di un amicizia.
Quando Pistios riuscì a liberare la mano destra e a colpire in un occhio chi lo teneva per terra, tutti stavano ancora ridendo.
Quando prese la spada dalle mani dell’uomo che urlando si teneva l’occhio destro che grondava sangue, avevano iniziato a smettere; quando Pistios fu in piedi, smisero del tutto.
Il giovane greco si gettò verso Deimos. Tra tutti cercava solo Deimos, voleva soltanto Deimos.
La rabbia gli bruciava le vene, le lacrime quasi lo accecavano, ma vide chiaramente la paura sul volto dell’uomo che aveva ucciso il suo amico.
Immerse la spada fino all’elsa nel suo petto, udendo le costole scricchiolare e rompersi, mentre il suo nemico sputava il sangue che proveniva dai polmoni perforati.
Provò pena e compassione per lui in un primo momento.
Poi provò gioia quando sentì una spada trapassargli il robusto muscolo del femore e passare da parte a parte la sua gamba destra, e altre due lame penetrargli nella schiena e aprirsi un passaggio nelle sue viscere, per sbucare dal suo stomaco.
Prima che tutti si accanissero su di lui, alzò lo sguardo, in alto, verso il cielo.
L’azzurro sopra la sua testa gli sorrideva, calmo, con il sorriso di un amico perduto.
Provò gioia nuovamente, perchè capì che presto avrebbe ritrovato il suo compagno, ovunque egli fosse in quel momento.
Guardò lassù, nell’infinito azzurro.
Lassù, dove osavano camminare le nuvole.
E i suoi occhi più non videro.

Terra d’Irlanda


Daniele si accorse che l’aereo stava per atterrare per due motivi.
Il primo era che sentiva una sensazione sgradevole alla bocca dello stomaco.
Il secondo fu che, con un rumore un po’ inquietante, la spia che richiedeva l’allacciamento delle cinture si accese di un rosso sbiadito.
Dagli altoparlanti risuonò una voce inglese che dava istruzioni sull’atterraggio e che li informava di essere quasi giunti in aeroporto. Lo stesso messaggio fu ripetuto in una lingua che Daniele non capì, ma che credeva fosse irlandese.
Gettò uno sguardo dal finestrino ma non vide altro che nubi grigie e basse, mentre gocce di pioggia velavano il piccolo finestrino dell’aereo.
L’aeroporto era piccolo, in confronto a quello dal quale era partito.
Una volta fermatosi l’aereo, tutti si alzarono.
Daniele prese il suo zaino e si avviò fuori dall’apparecchio, attraverso un tunnel sospeso del tutto uguale a quello tramite il quale era passato per partire.
Ebbe come la sensazione di aver fatto un lungo giro in tondo, e di essere tornato a casa.
Quando però arrivò alla fine del tunnel e trovò una scala mobile ad attenderlo, l’illusione cessò.
Recuperò la sua valigia sul nastro trasportatore e si avviò verso l’uscita.
Quando arrivò nell’atrio dell’aeroporto, un’aria fredda gli aggredì il viso e Daniele si strinse nella giacca scura.
C’erano parecchie persone con in mano dei cartelli scritti in molte lingue, recanti nomi e luoghi che lui non conosceva.
L’occhio gli cadde su una scritta alla sua destra, che però si trovava su un muro.
Una scritta qualsiasi, che in un altro aeroporto non avrebbe attirato la sua attenzione.
In nero, sul muro bianco grigiastro, c’era una frase in rilievo che riportava:

“Welcome to Dublin Airport”

Non fu il suo significato, ma il modo in cui era scritto ad attirare l’attenzione di Daniele.
Le lettere erano leggermente storte, tondeggianti, morbide e confortevoli, ma anche imperiose e serie. Era lo stesso stile di scrittura, Daniele se ne era accorto, degli antichi testi e delle antiche scritte di tempi perduti che aveva visto in tanti libri.
Leggerle lì, in un posto così moderno, era spiazzante. Gli diede la sensazione di essere arrivato in un altro mondo, dove esistevano regole inesistenti negli altri paesi, e dove le fiabe e le leggende facevano parte dell’ordinario piuttosto che dello straordinario.
Aveva appena varcato un confine invisibile tra realtà e sogno.
A consolidare quel pensiero era scritto pochi centimetri più in basso sempre con lo stesso carattere e distaccato dalla scritta inglese da dei triskelion:

“Fàilte cuig aerfoirt Bhàile àtha cliath”

Irlandese, senza dubbio.
Daniele rimase qualche secondo lì, ad assaporare quella strana sensazione di essere entrato in una terra completamente diversa e antica, e il fastidio del viaggio sbollì lentamente.
Si risvegliò da quel momento di stupefatta contemplazione quanto sentì pronunciare il suo nome in italiano e percepì una mano che gli toccava la spalla destra.
Si voltò e vide un uomo, di poco più alto di lui, dai lunghi capelli biondi che gli arrivavano fino alle spalle. Aveva baffi sottili, sotto i quali faceva capolino un sorriso genuino.
I suoi occhi erano glauchi e con una mano si stringeva una giacca marrone all’altezza del bavero.
-Sei Daniele, giusto?-
Parlava italiano con un accento spigoloso che Daniele dedusse probabilmente essere quello irlandese.
-Sì, sono io-
-Mi chiamo Doran. Tuo padre mi ha incaricato di venirti a prendere, te l’ha detto non è vero?-
-Sì certo. Mi ha parlato molto di te, dice che vi conoscevate da anni e che eravate un gruppo di amici inseparabili-
Il padre di Daniele effettivamente aveva detto che un suo amico sarebbe stato lì a prenderlo e lui non ebbe difficoltà a riconoscere in quell’uomo la persona che compariva in tante fotografie che il padre gli aveva mostrato prima di partire: gli aveva fatto vedere i suoi amici irlandesi perché lui li riconoscesse una volta all’aeroporto.
Doran rise.
-Sì, in effetti è così! Tuo padre ed io ci siamo conosciuti la prima volta che lui è venuto in Irlanda. Vi assomigliate molto – aggiunse guardandolo – ma mi ha anche detto che non sei partito volentieri dalla tua amata confusione cittadina-.
Mentre parlavano, lentamente si incamminarono verso l’uscita dall’aeroporto. Una volta giunti all’aperto, Daniele di stupì di come il clima non fosse eccessivamente freddo come aveva temuto, anche se il cielo era coperto e il tempo era molto brutto.
-Oggi il tempo si mantiene! E’ una fortuna- esclamò Doran.
-In Italia il tempo non è proprio così. Lì c’è una cosa chiamata sole ogni tanto- rispose acre Daniele.
-Sai, anche l’umidità fa bene: alle piante, alla natura…-
-Ai turisti contenti di corrodersi le ossa, certo- concluse Daniele. -E dimmi- aggiunse -l’acqua corrente l’avete, oppure la stillate dalle foglie? Magari tutto è come quei tombini? – ne indico alcuni a pochi metri da loro: erano colmi d’acqua e ogni tanto qualche bolla saliva in superficie.
-Da dove vengo io almeno quelli funzionano-.
Daniele storse la bocca, come faceva sempre quando era in vena di sputare veleno.
Doran, invece, lo guardò sornione.
-Mi chiedo come abbia fatto tuo padre per convincerti a venire qui: non dev’essere stato facile-.
Daniele guardò il cielo: -In effetti non mi ha convinto per niente, mi ha praticamente obbligato. Sinceramente avrei preferito rimanere a casa mia, a passare l’estate con i miei amici. Non avevo alcuna voglia di muovermi-.
Doran sorrise sotto i baffi: -Sembra quasi un supplizio. Non ti piace dunque nemmeno un po’ l’Irlanda?-
-E cosa dovrebbe piacermi di questo posto?- rispose il ragazzo con tono sprezzante, anche se la sua mente riandava continuamente alla scritta di benvenuto dell’aeroporto, e alle sensazioni che aveva provato -Gli alberi? L’umidità? O magari il fatto che piove praticamente sempre? Niente amici, niente spiagge, non conosco un locale… Mio padre ha fatto proprio una bella mossa a mandarmi qui, in mezzo a tutto questo schifo-.
Contrariamente a quel che si aspettava Daniele, Doran scoppiò a ridere di gusto; era una risata sincera, che faceva ondeggiare i suoi capelli chiari. Quando raggiunsero la macchina bianca parcheggiata a un tiro di sasso dall’aeroporto, stava ancora ridacchiando.
Daniele iniziò ad esserne infastidito.
-Si può sapere che cosa c’è di così divertente? Sono qui contro ogni mia volontà, condannato alla noia e al maltempo. Lo odio già, come odio questo posto!-
Salirono in auto e Daniele prese posto nel lato vicino al guidatore, anche se la prima volta sbagliò perché provò a salire a destra.
Doran accese la macchina. Non rideva più.
-E’ per questo che sono qui. Proprio perché ti fa così schifo. Vedrai, chi se ne va dall’Irlanda non è mai la stessa persona che ci è entrata!-
Imboccò la strada che usciva dall’aeroporto e si infilò nel traffico.

Lezione IV: L’Incipit, l’arte di iniziare


Scrivere un libro, come abbiamo già accennato, vuol dire sedurre il mondo.
La prima regola alla quale dovete fare affidamento e quella che voi dovete, senza remissione alcuna, cogliere l’attenzione del vostro lettore, prenderlo per mano o scuoterlo, fare in modo che non si stacchi più dalla vostra scrittura.

Deve tornare a casa dal lavoro, da scuola, con in testa un solo pensiero: riprendere in mano il vostro libro.
La scrittura duqnue è seduzione.

Ora, l’incipit non è altro che l’inizio di questa seduzione.
Dunque la sua importanza è fondamentale.

Ci sono diversi tipi di Incipit

Incipit Tradizionale

L’incipit per eccellenza è “C’era una volta”. Semplice, lineare, Introduce alla storia, è l’incipit delle fiabe, quasi leggendario, al quale tutti i bambini smettono di fare quello che stanno facendo e vi stanno ad ascoltare meravigliati.
Ovviamente, questo incipit non ha più senso in questa epoca moderna, dove il lettore vuole essere scosso, stupito, spiazzato.
Un altro tipo interessante di incipit è “Era una notte buia e tempestosa”.
Più sofisticata di “C’era una volta”, mettendo in risalto la notte, l’oscurità.
Questo, tuttavia, non è ancora l’incipit che cerchiamo.

Passiamo a un esempio più vicino a noi, a un incipit vero e proprio.
L’incipit non deve dire troppo, o troppo poco. Facciamo un paio di esempi.

Luca stava fissando il quadro che aveva davanti, frutto di una notte di ardente passione. Ricordava ogni pennellata, ogni sensazione. Pensò a molte cose, alla sua laurea in ingegneria, che stava tentando di rendere, alla madre che l’aveva sempre voluto dottore. Non poteva sapere che nel giro di pochi giorni sarebbe diventato il più grande artista sulla faccia della Terra.

Perchè non iniziereste con un incipit così? Perchè qui c’è troppo. C’è un inizio e una fine. Per fare un incipit non si una un grandangolo, ma un tleobbiettivo.

Facciamo un secondo esempio, riprendendo il primo.

Luca era lì, davanti al suo quadro. Gli vennero n mente le ramanzine del padre, le bufere di parole della madre, di fronte alla sua passione, “che non avrebbe mai portato a nulla”. Guardò di nuovo la tela, i colori, le pennellate ancora visibili alla luce delle candele. Fu in quel momento che capì che cosa avrebbe voluto. Non una laure in ingegneria, nè una macchina nuova. Avrebbe voluto diventare un artista. Avrebbe voluto uno studio che recasse il suo nome.

Andiamo meglio.
Come vedete, si mettono dei dettagli (l’ambiente in cui lavora, il fatto che il padre non vorrebbe questa sua attività, l’atmosfera clandestina) e si aggiunge un senso di attesa. Questo incipit è sicuramente più attraente, più seducente del primo.

Incipit in Medias res

L’incipit in media res è quello più comune a tutti noi, molto utilizzato nella cinematografia, nei telefilm eccetera. Esso è sicuramente efficace, poichè catapulta il lettore nell’azione.
Dobbiamo immaginare la mente di chi legge come una linea.
Per creare interessa, dobbiamo storcere questa linea, far accadere qualcosa che faccia compiere a questa linea dei giri che la stordiscano e che la droghino (in senso figurato) delle nostre parole.
Un incipit del genere potrebbe essere:

Mercoledì mattina mi alzai e mi accorsi di essere morto. Scesi in cucina e trovai mia moglie ai fornelli, come tutte le mattine. Sotto al piatto, trovai un biglietto, discreto, grande come un tovagliolo, che diceva che l’ora del mio funerale era decisa per venerdì, alle dieci di mattina.

Sbam. La linea è appena stata catapultata in una folle montagna russa.
Un incipit del genere ci porta a chiedere a noi stessi una cosa, ovvero “Che cosa è successo prima?”
Se vediamo un uomo pallido su un marciapiede, subito pensiamo che sia accaduto qualcosa. Poi più avanti scopriremo che è avvenuto un omicidio, oppure che l’uomo è scappato di casa.
Un altro esempio è

Ulbert si girò dietro l’albero, e vomitò. Era sempre così.
Si voltò e guardò i due cadaveri, già pallidi. Gli occhi, vitrei e spalancati, sembravano fissare qualcosa che lui non sarebbe mai riuscito a scorgere. Si asciugò la fronte e poi decise di proseguire.

Non credo occorrano spiegazioni superflue.
Siamo catapultati in una scena dove ci sono due morti e un uomo, l’assassino, che deve compiere un lavoro. Chi sarà? una spia, un agente federale? Oppure siamo in una città polverosa?
Tutto questo lo si può solo scoprire andando avanti a leggere, non siete d’accordo?
Se la risposta è positiva, allora questo incipit funziona, perchè ha attirato la vostra attenzione.
La stessa scena sarebbe stata profondamente diversa se l’incipit fosse stato una cosa del genere:

C’erano due cadaveri, stesi a un metro l’uno dall’altro. Gli alberi facevano ombra intorno ai due corpi e l’unico rumore che si udiva era quello delle foglie. A un paio di metri da loro, c’era un uomo, sui trentanni, rivolto dietro un albero, in piedi. Si chinò e vomitò sulla siepe dietro la quercia.

La differenza è palpabile (ed è anche difficile scrivere così linearmente). Non c’è alcuna seduzione.

In conclusione, posso dirvi che l’incipit è qualcosa di fondamentale per iniziare qualunque scritto.
Attirate l’attenzione di chi vi legge, seducetelo, fategli mancare l’aria, girare la testa, fremere per la curiosità o per il divertimento!
Fate qualunque cosa, ma non lasciatelo scettico, oppure apatico e annoiato.
Molti libri di successo non sarebbero tali se non avessero un incipit accattivante!
Ricordatevi: sedurre il mondo.

Nella prossima lezione parleremo di:

-La descrizione dei paesaggi
-La descrizione degli ambienti
-Cosa evitare e cosa ricercare

 

Grazie per aver seguito questi piccoli consigli, se li avete trovati utili, se credete che non siano il massimo o volete comunque dirmi qualcosa che vada dal grazie al potresti fare..?, ogni commento è gradito ed auspicabile.

Matteo

Incipit sull’Incipit – Athluntynos


Eridul camminava.
Come aveva fatto prima della battaglia, come aveva fatto dall’inizio del tempo. Non si era mai chiesto il motivo di questo suo movimento, ma sarebbe stato come chiedersi il perché dell’alternarsi delle stagioni, o del perché l’acqua fosse bagnata.
Egli camminava perchè era lui stesso il tempo, lo scorrere di un ruscello, l’invecchiare delle foglie.
E ora passava in mezzo a quella terra rossa come il sangue, in mezzo ai cadaveri mutilati e putrescenti di quella battaglia che aveva contribuito a scatenare.
I corvi volavano sopra le cortine di fumo che si sprigionavano dalle torce e dai bracieri accesi e rovesciati.
Nulla più rimaneva delle urla, delle cariche poderose: solo un vuoto silenzio e il lamento del vento.
Un uomo, con la giubba di cuoio impregnata di sangue, rantolava poco distante, mentre un corvo grande come un cane di piccola taglia gli beccava la spalla sinistra.
Il dio continuò il suo percorso, perchè non poteva fermarsi e perché il tempo non si ferma mai per nessuno, nemmeno davanti alla morte.
Attorno a lui mille e mille corpi senza vita, tanti come foglie di un albero, caduti al primo vento autunnale.
In mezzo al nulla e alla morte, calpestando dita e viscere, Eridul camminava.

Innocente


“Quando stai per morire non ti importa più di piegare bene i vestiti sulla sedia, o di toglierti le scarpe accanto al letto; né ti interessa sapere se la squadra di baseball per la quale tenevi da bambino, quella a cui facevi il tifo con tuo padre, può vincere il campionato.
Tutti quei gesti, così naturali, così insignificanti, acquisiscono un’importanza enorme. E cadono, come schegge di vetro, attraverso un domani che non ti aspetta più.
E’ strana la sensazione di non avercelo più, un domani, di non poter nemmeno più usare un verbo al futuro.
I progetti per i tempi a venire scoloriscono e cadono nell’oblio. Ogni viso, ogni oggetto impresso nella nostra mente diventa ultraterreno e distante.
Persino muoversi, mangiare, respirare perde senso.
Ogni azione passata diventa futile e ci si rende conto di essersi affaticati tanto per niente.
E’ una sensazione orribile, proiettata da un futuro incerto e lontano a un presente fin troppo immediato e doloroso.
Tutto diventa insipido, inutile, senza scopo.
Come se venisse tagliata via una parte di anima.
Un’anima che sa di essere innocente.”

Incipit – Athluntynos; Concorso UrbanGods



Questa storia non ha un inizio, o una fine.
Questa storia è oscurata dall’ombra nera del passato dimenticato e si perde nella luce di un futuro fatto di mille possibilità diverse.
Ciò che è scritto qui è pura verità, e possano gli dei torturarmi fino alla fine dei giorni se mentirò.
La leggenda che vi sto per narrare è stata ricostruita con molte difficoltà e innumerevoli sforzi, dopo anni di studi e di lavori.
Taluni dicono che essa non dovrebbe mai essere raccontata al mondo, perché l’esistenza dell’uomo è fragile nelle sue certezze, e la portata di questa scoperta farebbe vacillare anche il più sicuro tra gli esseri umani.
Antichi libri sono stati studiati per l’ultima volta prima che l’aria li riducesse definitivamente in polvere, manoscritti segreti sono stati consultati, parole ormai da molto tempo dimenticate hanno rivisto la luce e terribili azioni ed avvenimenti rivissero nelle nostre menti.
Luoghi meravigliosi ed eroiche imprese vennero riscoperti: storie di cavalieri e signori oscuri; scontri fra dei e uomini, che nella loro potenza sollevarono la terra e la fecero sprofondare nel mare; sfavillanti torri, audaci navi e impavidi guerrieri che conquistavano la fama e l’onore.
Ecco i fatti che portarono da una tale gloria alla più cieca e miserevole condizione la città di Athluntynos, conosciuta anche come Atlantide, la Città Perduta.
Questa è la sua vera storia.

Violenze sui minori? Se di “lieve entità”, ora puoi!


Per tutti quelli che se lo stessero chiedendo questo articolo NON è mio. Mi piaceva citarene l’autore e scatenare un po’ di discussione. Cosa che Tj nei commenti per esempio si è ostinata a non capire (e anche un altro di cui non ricordo il nome).
Il nome dell’autore è in fondo alla pagina.
Quindi non seccatemi dandomi la colpa di quello che c’è scritto qui, io su questa cosa non mi ero informato al tempo (mea culpa) ma volevo comunque solo riportare il pensiero di un’altra persona.

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Un brivido sottile, tagliente e sibilante come la lama di una sega elettrica mi ha attraversato la mente e la schiena leggendo l’emendamento n. 1707 al DDL sulle intercettazioni (niente obbligo di arresto per chi verrà sorpreso a compiere violenze sessuali ’di lieve entità’ verso minori). 
 
Tralasciando ora i discorsi sull’involuzione democratica scientemente e sapientemente tracciata e perseguita dall’attuale governo di centrodestra di questo paese, ho provato ad immaginare quale sia la violenza sessuale “di lieve entità” sui minori che non permetterebbe l’arresto in flagranza di reato a chi lo commette. 
 
Prova ad immaginare anche tu, fiero appartenente alla ex maggioranza silenziosa che ora ha preso voce con il Berlusconismo, fiera persona per bene tutta “messa la domenica mattina, abitini nuovi e sacchettino di pasticcini” che vota per chi questa legge la vuole e lotta per imporcela. 
Prova a pensare realmente, ad associare mentalmente le immagini di una violenza sessuale “di lieve entità” verso minori (capisco che non ti riesca di immaginarlo sui tuoi figli), ma dimmi ora quale potrebbe essere! 
 
Dai, siamo adulti e possiamo parlarci chiaro, anche se la tua educazione, fortificatasi nell’Italia bigotta e perbenista, stride con l’immagine reale della violenza sessuale sui minori, anche se “di lieve entità”. 
 
Dai su, come si può concretizzare allora, verso un minore, una violenza sessuale di lieve entità ? Non con la penetrazione certo, invasiva, violenta per sua stessa natura ed accezione e men che meno con la sodomizzazione, per ragioni ancora più ovvie. 
 
Non dovrebbe essere “di lieve entità” neanche la fellatio praticata con un minore (si inorridisce alla sola idea, vero?), né immagino sia “di lieve entità” la masturbazione praticata su una bambina; si, si lo so, sono immagini forti e rivoltanti ma proprio per questo ti ho ricordato lettorelettrice che siamo adulti e proprio per questo ti ho invitato a pensarci ed immaginare, prima di pendere stupidamente dalle labbra di chi in governo ci rappresenta e propone queste leggi. 
 
Lo so che hai affidato il tuo senso di “persona per bene” a chi ti ha preconfezionato il concetto e ti ha invitato a delegarlo, ma è questo, è proprio questo tuo delegato che ti ha proposto, attraverso questo DDL un benevolo occhio di riguardo per chi commette abusi sessuali (pardon), violenze sessuali di “lieve entità” su minori. 
 
Ti chiederai: “perché mai dovrebbe farlo?”, “perché mai un governo dovrebbe proteggere gesti malsani in danno dei minori?”, in breve, “cui prodest?”; ma qui, bisognerebbe spiegarti per l’ennesima volta come questi politici, quando non riescono a risolvere un problema o quando il problema è troppo grande o destabilizza l’idea di nazione che si vorrebbe proiettare, non riuscendovi con i fatti, risolvono con decreto (il re è nudo ma si vede vestito per decreto legge). 
 
Allora? Sei riuscito ad immaginare una violenza sessuale di lieve entità? Sono certo che ti sono sembrati tutti gravi, anche la masturbazione in presenza di minori pur non toccandoli affatto, anche solo sfiorare con pensieri concupiscenti il seno o il sesso di una bambina, anche solo immaginare un adulto che tenga una bimba sulle ginocchia e che da questo ne tragga un perverso piacere. 
 
Mi chiederai a questo punto qual è una violenza sessuale “di lieve entità” verso minori perché non riesci ad immaginarlo da solo? Bene, provo a risponderti: la meno grave che mi viene in mente, la meno invasiva, la violenza sessuale meno devastante per l’immaginario infantile e per la sua serenità futura è quella che non si fa, quella che non si pone in essere e tutto il resto, appartiene ad un’idea di società che non ci riguarda, che riguarda solo la politica e le sue perversioni. 

Non appena vi è stata la polemica del Pd e della Sinistra, c’è stato un fuggi fuggi in tutta la destra, con il solito coro di “non sapevo”, “non avevo capito” e l’immancabile “avete frainteso”.
In che razza di Paese viviamo.

Ecco chi ha formato la Legge



Lino Perrotta

Immaturo


Ovviamente non era come ce lo si potesse aspettare.
Nessuna aula piena di luce, nessun ampio corridoio davanti all’entrata.
Un fottuto scantinato, ecco cos’era.
Fece ancora una volta avanti e indietro davanti alla porta marrone scura, chiusa.
In mano aveva il suo vecchio accendino (in realtà aveva meno di un mese, ma a lui piaceva pensare che fosse vecchio e con una storia alla spalle) e lo apriva e lo chiudeva in maniera isterica, provocando un rumore metallico ogni volta che il coperchio d’ottone ricadeva sul supporto, spegnendo la fiamma senza ossigeno.
Pensò per un attimo di darsela a gambe.
Ma poi rivide nella mente le facce di un bel po’ di gente che aveva passato la vita a mormorare e borbottare tra i denti frasi di dubbio senso sintattico ed etico; un bel po’ di gente.
E la maggior parte non sapeva nemmeno di cosa stesse borbottando.
Allora decise di non lasciare perdere. Non era cieco, nè stupido, questo era certo.
Aveva solo una stramaledetta fifa che quella porta si aprisse e che una voce dicesse di entrare.
In effetti attorno a lui c’erano della facce che gli rischiaravano la giornata.
Forse per loro valeva la pena di tenere duro.
In fondo, in un’altra camera, con altre regole, un’altra persona giocava allo stesso gioco.
Bisognava avere fortuna, preparazione e nervi saldi per quel crudele passatempo. Ma non tutti ce la facevano.
C’era chi si lasciava trasportare, e chi inerme diventava come una mucca al macello.
Un colpo dritto in testa e via. Nuovo giro altra corsa: carne in scatola.
L’accendino era sempre lì.
Gamba, apri, gamba, accendi.
Era un giochino divertente aprirlo e accenderlo contro la coscia.
Faceva molto Jessy James o chissà che altro. Forse Clint Eastwood.
Una sigaretta, gli ci voleva una sigaretta.
Controllò ancora una volta l’attrezzatura. Non c’era proprio la possibilità di entrare dentro armati? sarebbe stato più facile.
Si vide sfasciare la porta con un calcio e urlare di mettersi a terra, tipo Swat.
Qualcuno avrebbe rischiato l’infarto.
Un lampo e gli venne in mente che a volte la gente è proprio stupida.
Fa più del male che del bene quando crede di sapere più degli altri e agisce senza pensare. Ma poi, ciò che perde è la stima altrui.
Non si può pensare di avere una condotta esasperante e poi non pagarne le conseguenze.
E’ impossibile.
Come non era possibile reperire un giubbotto antipallonigonfiati a quell’ora del mattino.
Forse avrebbe dovuto rinunciare alla Swat.
E se avesse gridato una frase su Sparta mentre entrava nella sala?
Probabilmente gli avrebbero risposto impassibili, mentre litigavano perchè uno aveva rubato all’altro il veleno da mettere sui pugnali, che non era capace a crescere.
Si girò.
Un rumore secco risuonò nel corridoio triste e ingombro di tavoli.
La voce disse di entrare.
Gamba, apri, gamba, accendi.
Tutto quel tempo, e faceva ancora fantasie come i bambini.
Gamba, apri, gamba, accendi.
Fissò negli occhi il macellaio.
Schiuse le labbra
Ma tu sai fare questo?
Gamba, apri, gamba, accendi.